«Felice inaugurazione di stagione, al Teatro Grande di Brescia, con una Turandot diretta sapientemente da Carlo Goldstein in perfetta sintonia con le atmosfere simboliche e fiabesche dello spettacolo firmato da Giuseppe Frigeni.»
BRESCIA, 2 ottobre 2016 – Il Teatro Grande di Brescia inaugura la stagione 2016 con il successo dell’ultimo capolavoro di Giacomo Puccini, Turandot.
All’apertura del sipario le atmosfere richiamavano un mondo legato all’estremo Oriente, ma senza una specifici riferimenti. Ovviamente ci trovavamo in Cina, anche se molto di quello che ci si presentava innanzi aveva un sapore decisamente più riconducibile a un contesto nipponico. Non è stata una scelta sbagliata, poiché, invece di presentare al pubblico la sfarzosa grandiosità della città proibita, il regista Giuseppe Frigeni ha deciso di esaltare i significati di una fiaba irreale e poco credibile nella sua conclusione, visto il repentino mutamento psicologico della Principessa di gelo. Due sono gli elementi visivi fondamentali: il cerchio e il numero tre.
Nel corso del primo atto campeggia un grande disco centrale, che parrebbe raffigurare la cote, ove inesorabile s’affila la lama del boia. Durante il terzetto delle maschere questo tondo (la forma geometrica perfetta) diviene il sogno di Ping con la proiezione dell’ombra della casa e dei paesaggi dell’Honan. Nel corso del medesimo terzetto i tre fiduciari giocano con grandi dischi bianchi e neri. Le medesime circonferenze fungeranno da piedistallo per i coristi intenti a pronunziare frasi dense di mistero quali “Da secoli ella dorme nella sua tomba enorme”. Il disco può rappresentare anche una luna o un sole: l’astro gelido o il corpo celeste che proprio in Oriente ha i suoi natali.
Un altro elemento fondamentale di questa messa in scena è, come detto, il numero tre. Tre sono gli enigmi, tre le maschere e tutto è tripartito. Il palco è suddiviso in tre parti delle quali quella centrale è scorrevole e, quando si ritira verso il fondo della scena, lascia apparire le teste dei principi decapitati, nel momento in cui a cantare sono le ombre dei morti. Tre drappi discendono dalla sommità della scena, ad accompagnare Timur, Liù e Calaf, così come Ping, Pong e Pang nel terzetto del secondo atto. Tre sono le guardie poste da ambo le parti nella reggia. Solo nel rapporto amoroso non regge il triangolo solo il sacrificio del terzo elemento permette una lieta conclusione, se così si può definire l’epilogo di quest’opera: Liù muore e permane l’unione fra Calaf e Turandot, tuttavia non viene mai meno la perfezione del tre, poiché le spoglie mortali della coraggiosa giovinetta cadono esattamente dove, nel primo atto, si trovavano le teste dei principi.
L’intenzione registica (comunque perfettibile per la caratterizzazione e l’interazione fra i personaggi) esalta, perciò, il clima di misticismo, morte, apparizioni e presagi presente nella partitura pucciniana.
Se lo spettacolo può dirsi riuscito molto del merito va all’ottima bacchetta del m° Carlo Goldstein, il quale affronta la scrittura con tecnica inappuntabile, sia nel controllo dei professori d’orchestra, sia nel rapporto fra buca e palcoscenico, quasi respirando assieme agli interpreti sul palcoscenico. A questo va ad aggiungersi un’interpretazione originale e perfettamente in linea con l’idea registica. Molte scelte di fraseggio e dinamiche abbandonano una pura spettacolarità, ma puntano su un’estrema teatralità. Non si avverte un suono marziale, ma un’eccellente solennità liturgica. Da notare come ogni frase musicale ribattuta non sia mai uguale a se stessa, ma muti d’intensità palesando il richiamo alla prima esposizione, ma evidenziando altresì il crescendo emotivo. Nel primo atto la Principessa di gelo appare sul fondo della scena, senza baldacchini o podi pomposi ed è solo il fraseggio impresso da Goldstein a rendere il senso di terrore del popolo di Pechino al cospetto di una semi-divinità.
Nonostante la scena scarna, e senza spettacolarizzazioni di zeffirelliana memoria, la magnificenza della centralità dell’autorità suprema e incombente dell’imperatore, inesorabile giudice della Cina, emoziona al pari dell’articolazione richiesta al coro nella scena degli enigmi.
Tutte le strette conclusive degli atti sono trascinanti per un’intensità mai chiassosa, né soverchiante, ma perfettamente equilibrata, in ossequio all’emotività teatrale della fiaba. Persino il brutto finale di Franco Alfano acquisisce pienezza di significati.
Bene la protagonista Lilla Lee, ben calata nel personaggio. La scena degli enigmi è ben eseguita, grazie a un bel controllo dello strumento. Apprezzabile anche per resa scenica e fraseggio, specialmente nel duetto conclusivo dell’opera, ove palesa l’effettiva debolezza della principessa cinese, che, nel cedere all’amore di Calaf, si spoglia delle vesti imperiali per restar vestita d’un semplice abito cinereo.
Sugli stessi livelli il Calaf di Rubens Pellizzari. Preciso musicalmente non difetta per accenti e si fa apprezzare soprattutto nel cantabile. Bella la sua interpretazione della romanza del primo atto “Non piangere, Liù”, così come la lettura del testo più eroica del secondo atto e amorosa nel terzo.
Chi delude, anche rispetto la promettente impressione ricavata nella Bohème dello scorso anno [leggi la recensione], è la Liù di Maria Teresa Leva, la quale tende spesso a gonfiare i suoni e denota uno scarso controllo dei fiati. Delude nell’interpretazione della romanza “Signore, ascolta!”, che conclude con un filato insoddisfacente per sonorità e intensità, mancando un adeguato sostegno al fiato. La Leva non eccelle nemmeno nella meravigliosa aria del terzo atto: “Tanto amore, segreto e inconfessato […] Tu che di gel sei cinta”, durante la quale, oltre alle mende tecniche, si nota un’eccessiva freddezza sia nella recitazione sia nel canto.
In crescendo le tre maschere Ping (Leo An), Pang (Saverio Pugliese) e Pong (Edoardo Miletti), che partono in leggera sordina, per guadagnarsi, successivamente, un meritato applauso a scena aperta, al termine del terzetto “Olà Pang! Olà Pong!”.
Ottimo per freschezza vocale, bel fraseggio e proiezione squillante il Timur di Alessandro Spina.
Completavano il cast Marco Voleri (Altoum) e Omar Kamata (Un Mandarino).
Parlando del coro imputiamo un piccolo errore al regista, ossia la disposizione dello stesso quasi in quinta. Dal punto di vista estetico era sicuramente un effetto conforme all’idea generale, ma ha penalizzato la diffusione del suono, specialmente delle voci acute dell’organico diretto da Diego Maccagnola. Bella invece l’idea di posizionare le voci bianche nei palchi di proscenio degli ordini più alti: invisibili, ma udibilissimi. La qualità tecnica dei bambini non è apparsa eccelsa, ma si sono ben disimpegnati sotto la guida del loro maestro Hector Raul Dominguez.
Regia, scene e bellissime luci erano tutte a cura di Giuseppe Frigeni, mentre gli stilizzati costumi nippo-cinesi erano di Amélie Haas.
L’orchestra era quella dei Pomeriggi musicali di Milano. Il coro degli adulti era quello di Operalombardia e quello dei bimbi era il coro di voci bianche Mousiké – SMIM Vida di Cremona. La banda di palcoscenico era la “Isidoro Capitanio” di Brescia.
La produzione originale è del Teatro Comunale di Modena e il circuito prevede la sua rappresentazione nei teatri di Brescia, Bergamo, Cremona, Como e Pavia.